Penso esista un rapporto diretto tra la crisi dei partiti italiani, che con Tangentopoli ebbe la sua deflagrazione e culmine, il degrado del dibattito pubblico e il declino che il Paese sta attraversando dagli anni novanta del secolo scorso.

Il Domani del 23 aprile scorso pubblica due articoli che mi hanno portato a una riflessione sulla qualità della nostra democrazia e sul rapporto che ha con lo sviluppo economico e sociale del Paese.

Uno degli articoli, a firma del politologo Pietro Ignazi che vi propongo qui, parte dai casi Renzi e Bongiorno come massima, ma non solitaria, espressione di politici che dedicano parte del loro tempo ad altre professioni ed anzi utilizzano per questo il ruolo politico. Senza voler entrare nell’assai rilevante ambito delle “opportunità”, solo questo è sufficientemente preoccupante.

Il secondo articolo, a firma di Daniela Preziosi che vi riporto qui, partendo dalla cronaca politica affronta il tema della mortificazione del Parlamento.

Ignazi sostiene con non poche ragioni, che chi entra in Parlamento dovrebbe dedicarsi in modo esclusivo a quell’attività.

L’idea di fondo è che, contrariamente alla vulgata populista degli ultimi anni, l’attività politica richieda moralità, competenza, studio e dedizione. Se questo presupposto è corretto e personalmente ritengo che lo sia, finita l’era dei partiti rimangono aperti alcuni problemi importanti.

I partiti garantivano dibattito pubblico, selezione e formazione della classe dirigente con percorsi di carriera in cui il ruolo nelle istituzioni era parte ma non il tutto.

Queste funzioni non possono venir meno pena il declino del Paese. Funzioni che devono essere svolte in un rapporto trasparente e aperto con la società tale da garantire attrattività verso l’attività politica e accesso a persone competenti che in alcuni casi potranno divenire politici di “professione”, in altri prestare parte del loro tempo per tornare alla propria professione senza aver subito danno nei percorsi di carriera.

Fonte Forbes

Pena attrarre prevalentemente i “forti”, i “furbetti”, i senza talento o, quando va bene, i pensionati di buona volontà. Cosa che, a guardare le istituzioni dei diversi livelli, sta già accadendo.

Ma poiché il vuoto, come noto, viene sempre riempito mentre declina il ruolo dei partiti aumenta l’influenza di fondazioni, think tanck e associazioni. Qui troverete un interessante approfondimento di Openpolis.

Daniela Preziosi cita Luigi Zanda che parla di “una sorta di stato di eccezione permanente”, di uno svuotamento del ruolo del Parlamento, dell’assenza di vero dibattito.

Una continua torsione delle istituzioni con il sovrapporsi del potere esecutivo a quello legislativo.

Il ruolo che i partiti hanno storicamente svolto, non senza limiti, garantiva maggiore equilibrio dei poteri ed era parte di un modello partecipativo che contribuiva a rafforzare il comune riconoscimento identitario nei valori costituzionali, il consenso verso obiettivi d’interesse generale, la costruzione di competenze e capitale sociale.

Tutto questo ha contribuito, non come unico fattore ma in modo determinante, alla fase di sviluppo dei magnifici trenta. Fase che ci ha insegnato che senza partecipazione e condivisione non c’è sviluppo.

Secondo me se facessimo un sondaggio la maggioranza dei cittadini manifesterebbe resistenza alle “riforme” perché divenute sinonimo di sacrificio e non di progetto che guarda a un futuro migliore. Possibile dar loro torto? Mi pare di no e allora come promuovere sviluppo se coloro che dovrebbero esserne protagonisti non ci credono e non se ne fanno protagonisti.

Nella speranza che prima o poi il sistema istituzionale e della rappresentanza trovi anche in Italia un nuovo e moderno assetto è necessario intervenire. Provo ad indicare alcuni temi che penso andrebbero affrontati:

  1. Le retribuzioni. Se si escludono i consiglieri regionali e i parlamentari, che sono assai ben retribuiti, chi presta il proprio tempo alla politica e male o per nulla retribuito (si pensi agli assessori dei piccoli e piccolissimi comuni italiani). Il risultato è la scarsa disponibilità a mettersi a disposizione e avere quindi un nucleo di persone attive sufficientemente ampio da innestarvi processi di selezione basati sul merito. Percorsi che, venendo dal basso, possano arricchire i livelli istituzionali “superiori” con competenze verificate e costruite sul campo. E’ necessario un riequilibrio di poteri e risorse a favore di chi quotidianamente è al fianco dei cittadini. Questo può incentivare i meritevoli al mettersi in gioco.
  2. Il costo dei partiti. Nessuna nostalgia, ma pensiamo davvero che un sistema democratico possa vivere senza partiti finanziati in modo trasparente? La fine del finanziamento pubblico ha tolto opacità e promosso un sistema meritocratico o ha avvantaggiato chi è in grado di attrarre risorse? Facile rispondersi e quindi il secondo intervento è giocoforza rimettere mano al finanziamento pubblico dei partiti.
  3. La regolamentazione delle attività di fondazioni e think tank che si relazionano con la politica così da renderne trasparenti le fonti di finanziamento e gli interessi rappresentati. Qui i membri del governo Draghi che fanno parte di think tank, fonte Openpolis.
  4. La regolamentazione dell’attività di lobbying.  Utile a rendere onore a chi svolge quella professione con trasparenza e nello stesso tempo affrontare l’annoso problema dei conflitti d’interesse e liberarci degli “affaristi”.
  5. Affrontare senza ipocrisie il tema delle “porte girevoli” perché non è immaginando l’estromissione da una qualsivoglia attività che abbia attinenza con l’esperienza maturata, quindi possibilità reale di concretizzarsi, che si risolve il problema. Troppo semplice e con ricadute negative sulla possibilità di considerare la vita politica una parentesi.
  6. Chi fa politica onestamente e non a tempo pieno corre spesso il rischio di vedere danneggiata la propria carriera ed anche la prospettiva previdenziale. Vogliamo parlarne? Rileggere la storia e valutare il contributo che tante persone formatesi alla e nella politica hanno saputo dare allo sviluppo del Paese e delle istituzioni potrebbe aiutare a discorsi meno demagogici sui vitalizi.

Non sono affatto temi di facile soluzione e privi di possibili contraddizioni ma è giusto chiedersi a chi giova una mancanza di regole o avere regole che limitano l’accesso a chi ha capacità ma non risorse. Insomma penso sia giusto discuterne consapevoli della complessità che comporta affrontarle.

Ultimo, ma non ultimo sarebbe necessario il superamento del bicameralismo perfetto per avere una democrazia decidente e rispettosa dell’equilibrio tra i poteri disegnato dalla Costituzione. Sappiamo che il fallimento del referendum non renderà possibile affrontare l’argomento per lungo tempo, ma l’esigenza resta.

In questo riassetto è necessario esaltare il ruolo del Parlamento. In controtendenza rispetto al pensiero dominante, mi sono convinto che tentare di risolvere i problemi rafforzando gli esecutivi non abbia aumentato l’efficacia dell’azione di governo com’è purtroppo dimostrato dalla perdurante mancanza di crescita del nostro Paese.

Riattivare il dibattito pubblico e la partecipazione è strumento ineludibile per rimettere in moto il Paese e le sue molte risorse partendo dalla più importante che sono le persone.

Riattivare il capitale sociale è il primo passo per riattivare anche lo sviluppo. Le scorciatoie non hanno funzionato ed è quindi necessario mettersi in cammino.